
24 Giu Intervista con Sonia Zappitelli
Le donne lo sanno. Dopo tanti anni di silenzi, un po’ imbarazzati, un po’ timorosi, oggi se ne parla sempre di più e in chiaro: il rientro al lavoro dopo la maternità è una corsa ad ostacoli, per tanti aspetti: quello psicologico – ci si sente un po’ in colpa – professionale – bisogna ristabilire il proprio ruolo in azienda – motivazionale – capita spesso che si torni in ufficio e si scopra di essere state “retrocesse” – emotivo – non è facile farsi capire in una fase così complicata. Sonia Zappitelli, HR Manager e consulente specializzata in welfare e parità di genere, ha avuto un’idea, La Luna del Grano, la prima realtà italiana specializzata nel rientro al lavoro post-genitorialità, guida le aziende verso un nuovo modello di welfare inclusivo e sostenibile.
Com’è nata l’idea de La Luna del Grano? (Domanda della fondatrice Marie Madeleine Gianni)
L’idea di Luna del Grano è nata durante il mio congedo di maternità, in un momento in cui – libera dagli schemi del lavoro quotidiano – ho potuto finalmente ascoltare ciò che davvero mi stava a cuore. La mia mente ha iniziato a generare qualcosa di nuovo, che non fosse più influenzato dall’esterno ma che venisse da me, profondamente.
Avevo alle spalle anni di lavoro sul benessere organizzativo, progetti che cercavano di tenere insieme la persona e il professionista. Ma è stato quando ho vissuto sulla mia pelle il rientro al lavoro dopo la nascita di mia figlia che ho toccato con mano quanto fosse difficile quel momento di transizione del tornare ad essere “anche” professionista. Quello che dovrebbe essere naturale – tornare nel posto che si era lasciato – può diventare invece una strada piena di ostacoli e sensi di colpa. Mi sono sentita fuori posto. Fragile. Inascoltata. In colpa. Non ce l’ho fatta.
E se io, con tutte le mie competenze, mi sentivo così… quante altre donne dovevano sentirsi allo stesso modo? È da questa riflessione che nasce La Luna del Grano: dal desiderio di rendere quel momento più umano, più dolce, di accompagnarlo. Di costruire una cultura che non costringa a scegliere tra il lavoro e la maternità, ma che sappia, anzi, tenerle insieme.
Il nome non è casuale. La Luna del Grano è la luna piena del mese di agosto, il momento in cui i campi raggiungono il massimo splendore. È la luna della maturità, della fertilità, del raccolto. Simboleggia la pienezza della vita. C’è poi anche un motivo personale: mia figlia è nata sotto la luna piena di agosto. Quel nome è, per me, un omaggio alla vita, alla rinascita, alla possibilità di unire maternità e realizzazione professionale, senza dover scegliere tra l’una e l’altra.
Sei fiera del tuo lavoro? (Jasmine, 10 anni, partecipante al progetto IREN “Anche noi Reporter!”)
Sì, sono profondamente fiera del mio lavoro. Lo sono perché oggi sento che il tempo che dedico al lavoro ha davvero valore, è un tempo ben speso, ben investito. E questo, per me, è fondamentale.
Quando mia figlia era neonata, una delle cose che più mi demoralizzava era proprio la sensazione che ogni ora di lavoro fosse tempo tolto alla cura di lei, alla relazione più preziosa che stavo costruendo.
Oggi, invece, so che quel tempo lo sto usando per qualcosa che conta: per portare nel mondo qualcosa che prima non c’era, per sostenere le donne e offrire loro strumenti concreti per vivere il rientro al lavoro con dignità, forza e fiducia.
Qualche giorno fa, accompagnando mia figlia – che ora ha quasi quattro anni – alla scuola materna, mi ha colpito una scena semplice ma potentissima. Una sua compagna di classe, sentendomi dire “ciao amore, la mamma va al lavoro”, mi ha guardata e mi ha chiesto: “Ma che lavoro fai?” Non era mai successo che una bambina me lo chiedesse. Nemmeno mia figlia me l’ha ancora domandato. E lì, con gli occhi pieni di emozione, ho risposto: “Aiuto le donne a tornare al lavoro. Questo è il mio lavoro.” E in quel momento mi sono sentita davvero fiera di me.
Sono fiera anche perché, in un periodo difficile della mia vita – quello delle dimissioni –tante, troppe persone intorno a me pensavano che la mia carriera fosse finita. E, devo ammetterlo, a volte l’ho pensato anch’io.
Ma invece mi sono rialzata. E non solo sono tornata in piedi: ho preso una direzione nuova, più vera, più mia. Oggi vedo davanti a me un futuro professionale più ricco di possibilità che mai, e sinceramente non vedo limiti.
Qualcuno o qualcosa ti ha ispirata? (Maddalena, 9 anni, partecipante al progetto IREN “Anche noi Reporter!”)
Non c’è stata una sola cosa o una sola persona che mi ha ispirata. Se guardo indietro, direi che sono tre le forze che hanno acceso in me il desiderio di creare La Luna del Grano.
La prima è stata l’esperienza personale della maternità. Un momento trasformativo, profondo, che mi ha costretta a guardare me stessa e il mondo del lavoro con occhi nuovi. È stato nel disallineamento tra ciò che vivevo come madre e ciò che il sistema lavorativo offriva che ho sentito nascere qualcosa. Non è stata un’ispirazione “romantica”, ma una spinta concreta a colmare un vuoto reale.
La seconda fonte d’ispirazione è stata e continua ad essere mia figlia. Anche se era appena nata, è stata lei a cambiare per sempre il mio sguardo. Tutto quello che faccio oggi nasce dal desiderio di lasciarle in eredità un mondo del lavoro più giusto, più consapevole, più accogliente, più sensibile – per lei e per le generazioni che verranno.
E infine, mi ha ispirata ciò che a me è mancato: un sistema capace di accompagnare davvero le donne a tornare a lavoro, non facendole più sentire inadeguate e in colpa ma parte di un sistema più grande capace di comprendere e accogliere. È stato proprio quel vuoto, quel silenzio intorno a un momento così delicato, che mi ha spinta ad agire. Ho voluto creare ciò che io stessa avrei voluto avere.
La Luna del Grano nasce da questo intreccio: un’esperienza vissuta, una figlia che apre il cuore e un’assenza che diventa possibilità.
Cosa ti piace di più e cosa di meno dell’età che stai vivendo? E che titolo daresti a questa fase della tua vita? (Domanda estratta da “L’Età di mezzo” progetto Pilota Reggio Emilia)
Il titolo che darei a questa fase della mia vita è “Salita”.
È l’immagine che mi rappresenta meglio: una strada che si inerpica, che richiede forza, equilibrio, e spesso impone di fermarsi a respirare. Una strada difficile, sì, ma quello che immagino ci sia in cima mi piace tantissimo. L’idea di quella vetta mi spinge ogni giorno a continuare. Quello che mi piace di più dell’età che sto vivendo è la possibilità di costruirmi: mattone dopo mattone, passo dopo passo.
Adesso, alla soglia dei 39 anni, so davvero chi sono e cosa voglio. Ho imparato a selezionare: le persone, gli amici, anche i familiari che voglio accanto. I valori in cui credo, i contesti in cui voglio stare. Ho imparato a riconoscere le mie qualità e anche i miei difetti. A scegliere gli ambienti giusti per me, nel lavoro e fuori. So cosa so fare e, nonostante tutto, non mi metto limiti.
Se serve, cambio strada. Se serve, trovo un sentiero alternativo per stare meglio. Quello che vivo è un momento di grande crescita. A cui mia figlia contribuisce ogni giorno, con le sfide e le gioie che anche lei mi pone di fronte.
Quello che mi piace meno di questa fase della mia vita – in cui la salita è l’immagine che più mi rappresenta – è la solitudine che ogni tanto si incontra man mano che si sale.
È la consapevolezza che, a un certo punto, la strada si restringe, che non tutti scelgono di continuare con te, e che per costruirti la vita che desideri devi affidarti quasi esclusivamente a te stessa.
Faticano le gambe, ma faticano anche le scelte: ogni passo è tuo, ogni deviazione la paghi, ogni obiettivo lo conquisti senza più il margine dell’ingenuità. Non c’è una mappa, e i modelli non sempre esistono. Devi crearli tu.
Questo è bellissimo, ma a volte pesante. E a volte manca una voce accanto che dica: Ce la fai, continua.
Tu hai un’amica o un amico diversa da te? Che cosa vi distingue? (Domanda estratta dal libro-progetto “Volo con te”)
Devo ammettere che non ho tantissimi amici/amiche “veri” e sì, alcuni di loro effettivamente sono molto diversi da me. E se devo pensare alla differenza più grande che mi distingue da qualcuno/a, penso all’amico o all’amica che è rimasto nel paese in cui siamo cresciuti, in Molise.
Io, a 18 anni, ho fatto una scelta: lasciare la mia famiglia, le mie comodità, tutto ciò che conoscevo. Ho scelto di partire, di mettermi in cammino verso qualcosa che ancora non sapevo cosa sarebbe stato. E quella scelta ha dato forma, negli anni, alla “salita” che oggi sto percorrendo. La strada che percorro oggi l’ho iniziata a costruire fin da allora, passo dopo passo. Ogni passaggio, ogni difficoltà affrontata da sola, lontano da casa, ha contribuito a chi sono oggi. Parlo delle cose più semplici – sbrigare pratiche, vivere da sola, fare tutto senza l’aiuto immediato di qualcuno – ma anche delle cose più profonde: ricostruirsi una nuova identità, creare nuovi modelli di riferimento, reggere le fragilità della maternità da lontano, senza rete.
Non voglio dire che chi resta nel proprio contesto non cresca, anzi. Ma credo che sia una crescita diversa: più protetta, ancora sotto l’ala del conosciuto, della famiglia, dei luoghi di sempre senza troppe sorprese.
La mia invece è stata una crescita scollegata dal contesto, libera di assorbire elementi da ogni esperienza, da ogni città, da ogni difficoltà vissuta. E quella libertà ha avuto un costo, ma anche un grande valore. Mi distingue questo: la corazza che ho costruito cadendo e rialzandomi, cercando da sola i miei spazi e i miei modelli.
E se oggi guardo chi è rimasto, sento che in alcuni casi non c’è stata ancora l’opportunità o la spinta per esprimersi pienamente, per liberarsi da tutto ciò che è “dato” e scoprire chi si è davvero. Non c’è un giudizio in questo: non è meglio partire né è peggio restare. Ma nel mio caso, lasciare ha significato realizzarmi. E in fondo, lo sento profondamente: questa era la strada che il mio destino – anche quello astrale – aveva previsto per me.
Cosa vorresti cambiare di te? (Giorgia, 10 anni, partecipante al progetto IREN “Anche noi Reporter!”)
Questa è forse la domanda più bella. E anche la più difficile. Perché non c’è solo una cosa che vorrei cambiare di me, ne è più di una!
1) La tendenza a fare tutto da sola. Negli anni, a forza di batoste – personali, familiari, professionali – ho imparato a camminare con le mie gambe, a contare solo su di me. È diventata una forma di protezione. Ma oggi sento che, per andare avanti, dovrei alleggerirmi un po’. Alleggerirmi nel cuore, nel corpo, nei pensieri. Fidarmi un po’ di più delle persone.
Imparare a riconoscere una mano tesa, a credere che quell’aiuto sia sincero, autentico. Non è che non abbia mai chiesto aiuto – l’ho fatto, quando era necessario. Ma faccio fatica a credere che l’aiuto possa arrivare spontaneamente, senza condizioni, senza doverlo meritare a tutti i costi.
2) Vorrei anche rallentare un po’, respirare di più. Smettere di correre sempre verso il prossimo impegno, il prossimo traguardo, il prossimo mattoncino da posare. Vorrei imparare a fermarmi nei momenti semplici, lasciarmi attraversare dalla bellezza di ciò che c’è, di ciò che basta. Non ho mai cercato la perfezione. Per me “perfect enough” è sufficiente. Ma anche quel “abbastanza perfetto” a volte pretende troppo, consuma energie invisibili, continua a scavare. E allora sì, se c’è qualcosa che davvero vorrei cambiare, è questo: essere meno dura, più morbida, più accogliente, anche con le mie fragilità.
3) E poi vorrei migliorare nella gestione delle situazioni di rabbia e di malessere. Imparare a trasformare la rabbia in qualcosa che fiorisce, non in qualcosa che logora. E vorrei farlo non solo per me, ma anche per mia figlia. Perché so che le relazioni che viviamo con chi amiamo ci plasmano, e vorrei davvero essere un esempio per lei, non trascinarla con me in dinamiche rigide, in difese apprese, in automatismi che non aiutano a vivere leggeri.Vorrei imparare a guidarla con forza ma anche con dolcezza, mostrando che si può essere stabili senza diventare pesanti, che si può essere presenti senza annullarsi. Alla soglia dei 39 anni, ci sto ancora lavorando. Ma so che questa è una delle salite più importanti che voglio affrontare.
Cosa pensi di BET SHE CAN?
Penso che BET SHE CAN sia un progetto necessario e bellissimo, perché parte da un’intuizione semplice ma potentissima: le bambine devono potersi immaginare libere di diventare tutto ciò che desiderano.
Credo profondamente che l’autonomia, la consapevolezza e la fiducia in sé stesse non siano doni che arrivano per caso, ma strumenti che vanno coltivati fin da piccole, fin dai primi anni.
E BET SHE CAN lo fa con intelligenza, ascolto e visione, creando spazi dove le bambine possano sperimentare, scegliere, mettersi alla prova senza dover per forza rientrare in un modello prestabilito.
In fondo, il lavoro che faccio oggi – con La Luna del Grano e come donna, madre, professionista – ha radici simili: dare voce a chi spesso è rimasta invisibile, offrire strumenti, linguaggio, possibilità. Accompagnare chi ha bisogno di sentire che non è sola nel costruire la propria identità, il proprio futuro.
BET SHE CAN parla a quella parte di me bambina che ha lottato per diventare libera, e a quella parte di me adulta che oggi vuole costruire modelli nuovi per le nostre figlie.
Ecco perché credo che ci sia una sintonia naturale tra i nostri mondi: loro aiutano le bambine a immaginarsi. Io provo a sostenere le madri nel momento in cui quella bambina immaginata prende forma e si confronta con la realtà. Progetti così non sono solo belli. Sono fondamentali.

Accompagna la crescita di bambine e ragazze nella fase della preadolescenza attraverso strumenti di supporto allo sviluppo della consapevolezza di ciò che sono e di ciò che vogliono essere, fino alla libertà nelle loro scelte e azioni.